lunedì 4 maggio 2009

I CANTO DEL PARADISO DI DANTE

I Canto del Paradiso di Dante Alighieri.

1-3 La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

La gloria di Dio (colui che tutto move) penetra per tutto l'universo e risplende in diversi gradi di splendore (in una parte più e meno altrove).

4-6 Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di la su discende;

Dante è stato nel paradiso (Nel ciel che più de la sua luce prende fu' io) e quello che vide non può essere raccontato (anche se comunque lui ci proverà lo stesso!).

7-9 perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

In questa terzina Dante dà una spiegazione del perché non può raccontare ciò che vide in paradiso. Perciò dice che quando il nostro intelletto si sprofonda in tale modo in Dio, il quale è l'oggetto del desiderio del nostro intelletto (il suo disire), la nostra memoria non può andargli dietro (dietro la memoria non può ire), cioè le nostre limitate facoltà umane non sono in grado di conservare nella memoria questa esperienza!

10-12 Veramente quant'io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

Comunque ci dice che qualcosa nella sua mente è rimasto del paradiso (del regno santo) e questo qualcosa che gli è rimasto nella mente sarà l'oggetto di questo canto (sarà ora materia del mio canto).

13-15 O buono Apollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro.

Dante qui si rivolge ad Apollo, divinità pagana, per chiedergli l'eccellenza della virtù poetica: fammi del tuo valor sì fatto vaso, cioè fai di me un degno recipiente della tua virtù poetica, così come domandi per conferire la corona d'alloro. Dice amato alloro perché l'alloro era la pianta in cui fu tramutata Dafne, la quale era amata da Apollo. Naturalmente Dante sa di rivolgersi a divinità pagane e perciò inesistenti, ma bisogna prendere lo spirito di quello che vuole dire e non “la lettera”.

16-18 Infino a qui l'un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m'è uopo intrar nell'aringo rimaso.

Il Parnaso era un monte della Beozia con due cime (gioghi). Una cima si riteneva che fosse abitata dalle Muse e l'altra da Apollo. Dante dice che fino a qui, e cioè per comporre le cantiche dell'inferno e del purgatorio, gli è stato sufficiente (assai mi fu) l'aiuto delle Muse ispiratrici (l'un giogo di Parnaso assai mi fu), ma ora bisogna che anche Apollo dia il suo aiuto (con amendue m'è uopo intrar nell'aringo rimaso, “rimasto”). L'aringo è il campo recintato nel quale si combatteva il duello e perciò denota la fatica di Dante nel compiere questa immensa opera, come se fosse un combattimento. Aringo ricorda anche la parola inglese “ring” che indica il recinto del pugilato!
Le Muse e Apollo simboleggiano rispettivamente le realtà umane e quelle divine, perciò, per comporre la cantica del paradiso, ha bisogno di entrambe queste fonti di ispirazione.

19-21 Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.

Ovidio racconta nel mito che Marsia sfidò il dio Apollo a chi avrebbe suonato meglio il proprio strumento, Marsia il flauto e il dio Apollo la cetra. Apollo vinse e scorticò vivo Marsia per punirlo della sua presunzione. La vagina è il fodero della spada e qui è usato per la pelle di Marsia, dalla quale Apollo estrasse Marsia, d'un sol colpo! Dante chiede al dio di entrargli nel petto e di ispirarlo, evocando questo racconto della mitologia nel quale Apollo si mostrò vincitore. Ma Dante non è un dio e probabilmente questa immagine di Marsia tratto fuori dalla sua stessa pelle sta ad indicare l'immensa fatica che aspetta Dante nell'ultimare la sua opera, come se Dante dovesse uscire dalla sua stessa pelle per la fatica di comporre, faticosa composizione la quale è concessa dall'ispirazione divina, naturalmente, la quale è simboleggiata da Apollo.

22-27 O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l'ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra'mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Dante prega ancora la divina virtù di “prestarglisi”, solo per quel tanto perché egli possa manifestare appena l'ombra di ciò che ha visto nel paradiso, quell'ombra che è rimasta segnata nella sua mente. Il diletto legno è la pianta dell'alloro. L'uso di incoronare pubblicamente i poeti con le foglie dell'alloro vigeva nell'antichità greco-romana ed era stato ripreso nel Medioevo.

28-33 Sì rade volte, padre, se ne coglie
per triunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l'umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deità dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.

La lieta delfica deità è Apollo stesso e la fronda peneia è l'alloro. Dante, rivolgendosi ad Apollo, chiamandolo padre, dice: così di rado si colgono queste foglie di alloro, per celebrare il trionfo di un imperatore (cesare) o di un poeta, e ciò è colpa e vergogna delle umane voglie (perché gli uomini non desiderano più che trionfi la poesia, in un poeta, o il bene, in un imperatore), che il fatto che qualcuno sia assetato della corona di alloro dovrebbe generare in te, Apollo, letizia. Veramente però non dice “quando qualcuno è assetato dell'alloro”, ma “quando l'alloro rende assetato di sé qualcuno” (....la fronda peneia, quando alcun di sé asseta). Altrimenti si potrebbe pensare che Dante è assetato di semplice gloria umana, e invece, detto in questa forma, è l'alloro che chiama a sé Dante, cioè è la poesia che chiama a sé Dante e non Dante che chiama a sé la virtù poetica per averne semplice gloria umana.

34-36 Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.

Questa semplice terzina è grandiosa perché testimonia l'umiltà di Dante e chiarisce meglio il fatto che è l'ispirazione poetica in se stessa che interessa a Dante e non la poesia per averne semplice gloria umana. Infatti dice che poche scintille favoriscono un grande incendio (Poca favilla gran fiamma seconda): la sua invocazione al dio Apollo vuole suonare come un esempio trascinante. Forse dietro a me, continua Dante, in modo migliore di me (con miglior voci), si pregherà perché Cirra (città di Apollo) risponda e conceda l'ispirazione poetica desiderata.

37-42 Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.

La lucerna del mondo è il sole, il quale “sorge ai mortali per diverse foci”, ossia da diversi punti sull'orizzonte, a seconda delle stagioni. Quella foce che quattro cerchi giugne con tre croci, ossia “che congiunge quattro cerchi con tre croci” è l'equinozio, in particolare quello di primavera, quando si svolge il viaggio di Dante, così come è detto nel I Canto dell'Inferno. Negli equinozi, i quattro cerchi celesti: eclittica, coluro equinoziale, equatore e orizzonte, si intersecano formando tre croci. Nell'equinozio di primavera la lucerna del mondo esce con miglior corso, perché è primavera appunto, e congiunta con migliore stella, che è la costellazione primaverile dell'Ariete (almeno nei tempi antichi, perché con la precessione degli equinozi il punto vernale retrocede). E perciò essendo primavera, la cera del mondo (la mondana cera, come se la materia del mondo fosse cera da plasmare) viene plasmata dal calore del sole più a suo modo ed è come se vi venisse impresso il sigillo solare (la mondana cera più a suo modo tempera e suggella).

43-48 Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l'altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila sì non li s'affisse unquanco.

Adesso veniamo alla narrazione con la comparsa dei protagonisti Dante e Beatrice. Nella narrazione Dante e Beatrice si trovano nell'altro emisfero, quello australe diremmo noi oggi. Si trovano dove erano rimasti, nel paradiso terrestre (Eden) in cima alla montagna del purgatorio svettante verso il cielo, montagna che Dante colloca nell'emisfero australe, esattamente agli antipodi dell'ingresso dell'Inferno che è collocato da Dante a Gerusalemme. E' luogo comune pensare che Cristoforo Colombo abbia “scoperto” la “rotondità” della terra, mentre invece ne ha solo dato una conferma, perché la rotondità della terra era già nota, per esempio, ad Eratostene, III secolo a.C., il quale ne calcolò approssimativamente il raggio con la luce proveniente dalle stelle. Anche nella cosmologia dantesca, pure essendo una cosmologia ingenua, la terra è sferica. Dunque Dante e Beatrice si trovano nell'emisfero australe. Però quando Dante scrive la Commedia si trova in questo nostro emisfero, quello boreale, perciò dice: Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce, cioè la foce dalla quale era sorto il sole aveva fatto di là (nell'emisfero australe) mattino e di qua (nel nostro emisfero) sera. E perciò l'emisfero australe era quasi tutto rischiarato e quello boreale tutto al buio: e quasi tutto era là bianco quello emisperio, e l'altra parte nera. Quando Dante vide Beatrice volgersi a sinistra e guardare nel sole. Mai un'aquila fissò in tal modo lo sguardo nel sole: aquila sì non li s'affisse unquanco (unquanco significa mai!)

49-54 E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l'atto suo, per li occhi infuso
ne l'imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso.

Dante, per dire che ha imitato l'atto di Beatrice di fissare il sole, utilizza questa immagine, del raggio che batte su una superficie d'acqua o su uno specchio e riflettendosi torna in su. Il secondo raggio è il raggio riflesso, il primo raggio è quello che batte sullo specchio. E' bellissimo il terzo verso che dice che il raggio riflesso non è altro che un pellegrino che vuole tornare in cielo, la da dove è venuto: pur come pelegrin che tornar vuole. Nei tre versi successivi Dante appunto dice che l'atto di Beatrice, di fissare il sole, atto infuso, attraverso la vista, nell'immaginazione di Dante (per li occhi infuso ne l'imagine mia) è stato da lui imitato, così come ad un raggio incidente sullo specchio segue un raggio riflesso e perciò con la massima naturalezza. E fissò gli occhi al sole per un tempo maggiore a quello che ci è concesso normalmente senza rimanere accecati: e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso.

55-57 Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l'umana spece.

Come mai Dante ha potuto fissare così a lungo il sole senza rimanere accecato? Qui lo spiega. Dice che ciò è potuto accadere perché Dante e Beatrice si trovano ora nel paradiso terrestre, il quale è il luogo fatto per proprio de l'umana spece, cioè il luogo che Dio aveva creato per l'uomo e dove l'uomo avrebbe dovuto rimanere nei secoli della storia, senza cedere alla tentazione del serpente. Perciò in quel luogo, le capacità umane sono molto più efficienti, infatti con la perdita dell'innocenza c'è una diminuzione delle capacità umane e un offuscamento della vista, che qui dobbiamo intendere soprattutto come “vista spirituale”. Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù: molto è lecito là, che qui non è lecito alle nostre facoltà. Sicuramente dobbiamo anche intendere che nel viaggio di Dante nei tre regni, il quale viaggio è metafora del viaggio spirituale di ognuno di noi verso il cielo, Dante ha raggiunto quell'innocenza perduta del primo uomo Adamo (trovandosi appunto nel paradiso terrestre), innocenza che ci è stata restituita dal sacrificio di Cristo e ora Dante si appresta a salire in cielo, accompagnato da Beatrice, fino al massimo compimento della vita di ciascuno di noi, che è la visione di Dio, visione che sarà sublimemente descritta nel XXXIII e ultimo Canto della Divina Commedia.

58-63 Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
com' ferro che bogliente esce del foco
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole addorno.

E' bellissima questa immagine che segna l'ingresso di Dante in una nuova realtà: il cielo. Dice: “non lo sopportai molto, né tanto poco (la vista del sole) da non vederlo sfavillare intorno, come il ferro incandescente che esce dal fuoco. E subito sembrò che la luce del giorno si raddoppiasse (e di sùbito parve giorno a giorno essere aggiunto) come se Dio (quei che puote) avesse adornato il cielo di un altro sole”. In questa bellissima descrizione è come se un altro sole, il sole spirituale di Dio, si fosse aggiunto al sole naturale, il quale sole naturale altro non è che il simbolo reale, tangibile di quell'altro sole altrettanto reale che è Dio.

67-72 Beatrice tutta ne l'etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l'erba
che 'l fe consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.

Beatrice continua a guardare il cielo: Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava. L'etterne rote sono le sfere celesti. E Dante ora volge lo sguardo a lei, dopo averlo distolto dal sole: e io in lei le luci (degli occhi) fissi, di là sù rimote.
Alla vista di Beatrice Dante diventa come lei:
Nel suo aspetto tal dentro mi fei. Per descriverlo si rifà al mito di Glauco, pescatore della Beozia, il quale vide che i pesci da lui pescati saltavano di nuovo in mare e continuavano a vivere, dopo avere mangiato una certa erba. Glauco volle assaggiare quell'erba e saltò anche lui in mare, sentendosi trasformato in una divinità marina. Dante passa dalla condizione umana a quella divina. Trasumanar significar per verba non si poria: non si potrebbe spiegare a parole (per verba) che cosa significa questo “trasumanare”, cioè questo passare dall'umano al divino. Perciò basti questo esempio, questa similitudine, a colui a cui la grazia concede l'esperienza del trasumanare: però l'essemplo basti a cui esperienza grazia serba.

73-75 S'i' era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.

In questa meravigliosa terzina Dante esprime un dubbio: non sa se è stato sollevato in cielo col corpo o senza il suo corpo. Questo dubbio era già stato espresso da San Paolo che, nella seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 12, 2) parlando di se stesso dice: “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito al terzo cielo”. Qui Dante dice esattamente lo stesso! Si rivolge a Dio chiamandolo amore: amor che 'l ciel governi, tu sai sei ero di me soltanto con l'anima, la quale anima è quel che creasti novellamente, ossia quella che creasti per ultima, dopo il corpo. Infatti nella Genesi è scritto che Dio alitò in Adamo e gli infuse lo spirito vitale.

76-81 Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l'armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.

Secondo la teoria cosmologica in vigore ai tempi di Dante il ruotare delle sfere celesti era dato dal fatto che le sfere celesti cercavano di ricongiungersi con Dio Creatore e questo desiderio le faceva sempre essere in moto. Perciò Dante dice, ancora rivolgendosi a Dio: “Quando il ruotare delle sfere celesti, ruotare che Tu rendi eterno, desiderato da esse, catturò la mia attenzione (a sé mi fece atteso) con l'armonia che Tu temperi e distingui, mi parve allora tanta parte di cielo infuocata dalla fiamma del sole, che una pioggia o un fiume non formò mai un lago tanto grande”. La antica teoria secondo la quale il ruotare dei pianeti genererebbe delle armonie non ha trovato riscontro nella scienza moderna, eppure questo è proprio ciò che dice Gesù Cristo nell'opera di Maria Valtorta. Dice proprio che i pianeti, ruotando intorno al sole, generano dei suoni armonici, i quali però sono uditi solo dagli angeli!

82-84 La novità del suono e 'l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.

Dante qui dice del suo stupore di questo suono delle sfere celesti e del cielo acceso dalla fiamma del sole e desidera grandemente sapere le cause di ciò (di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume).

85-93 Ond'ella, che vedea me sì com'io,
a quietarmi l'animo commosso,
pria ch'io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso.
Tu non se' in terra, sì come tu credi;

ma folgore,
fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch'ad esso riedi”.

Beatrice, la quale vedeva nell'animo di Dante (Ond'ella, che vedea me sì com'io: mi vedeva così come mi vedevo io, come ero io) per acquietare Dante, lo rassicura prima che Dante cominci a parlare. E dice: “tu stesso ti fai grosso (grossolano) col falso immaginare, così che non vedi ciò che vedresti scuotendo via da te il falso immaginare”. Quante volte queste parole non sono indicate perfettamente anche per noi! Beatrice rassicura Dante e gli dice : “Tu non sei in terra, come credi di essere, bensì il fulmine, cadendo giù dal cielo (fuggendo il proprio sito) non corse così veloce come te, che al tuo sito, e cioè al cielo, ritorni (riedi)!” Ma è meraviglioso!

94-99 S'io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu' inretito
e dissi: “Già contento requievi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com'io trascenda questi corpi levi”.

Dante è stato disvestito dal dubbio e sa che ora sta salendo verso il cielo, ma proprio questo fatto diventa per lui cagione di un nuovo dubbio, di nuovo stupore: ora Dante si stupisce di come lui, corpo terrestre, possa levarsi sopra corpi più leggeri quali l'aria e il fuoco. I quattro elementi, secondo la concezione antica erano, in ordine di pesantezza: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. “Già contento requievi di grande ammirazion; ma ora ammiro com'io trascenda questi corpi levi” ossia “Già contento mi acquietai (requievi è un latinismo) dal grande stupore, ma ora mi stupisco di come io possa salire attraverso questi corpi più leggeri”.

100-108 Ond'ella, appresso d'un pio sospiro,
li occhi drizzo ver' me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.

Beatrice fa un pietoso sospiro, volge gli occhi verso Dante con quell'atteggiamento che ha una madre verso il figlio che delira e dice: “Tutte quante le cose sono ordinate tra loro e questo principio rende l'universo simile a Dio. Le alte creature (cioè le creature dotate di ragione) vedono in questo principio il segno di Dio (l'orma de l'etterno valore) il Quale è il fine per il quale è stato fatto questo accennato principio (la toccata norma).

109-114 Ne l'ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Così continua il discorso di Beatrice: “Tutte le nature seguono l'ordine divino (Ne l'ordine ch'io dico sono accline tutte nature), ciascuna natura con una diversa sorte. Quali (Angeli e uomini) più vicine al loro principio (Dio) e quali meno vicine (animali e creazione inanimata). Per cui si muovono per diverse destinazioni nel grande mare dell'essere e ciascuna con un diverso istinto che la conduce”.

115-117 Questi ne porta il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;

Il discorso continua con tre esempi: c'è l'istinto (naturale inclinazione) che fa sì che le fiamme del fuoco si propaghino verso l'alto (Questi ne porta il foco inver' la luna).
Quest'altro istinto mette in moto i cuori mortali, cioè i cuori degli animali che muoiono perché non sono dotati dello spirito eterno di Dio. Quest'altro istinto raduna la terra in sé e la tiene compatta. E' la terra (corpi materiali) che scende sempre verso il basso e oggi chiamiamo questo istinto naturale o questa forza: forza di gravità!

118-120 né pur le creature che son fore
d'intelligenza quest'arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore.

Né solamente (pur) le creature che sono prive (fore) di intelligenza (come il fuoco, gli animali e la terra di cui sopra) sono sospinte dal proprio istinto naturale (come se questo istinto fosse un'arco che saetta le specifiche nature nella loro giusta direzione), ma anche quelle che sono dotate dal Signore di intelletto e volontà, quali gli uomini e gli angeli!

121-126 La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa 'l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Così continua Beatrice: “La provvidenza di Dio che sistema tutte queste cose (che cotanto assetta) con il suo lume rende il cielo sempre quieto, dentro il quale si muove quell'altro cielo che è più veloce (quel c'ha maggior fretta)”. Il cielo del paradiso di Dio, l'Empireo, è quel cielo che è sempre quieto, reso quieto dal lume stesso di Dio. Al di sotto dell'Empireo c'è il Primo Mobile che è il cielo che si muove più veloce di tutti, secondo la concezione dantesca dell'universo e la spiegazione del moto del Primo Mobile è detta ai versi 76-81: è data dal desiderio di ricongiungersi con il cielo di Dio. Il moto del Primo Mobile conferisce il moto a tutti i cieli al di sotto, che si muovono più lentamente e che sono: Il cielo delle stelle fisse, quello di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio e della Luna. Se consideriamo che, ai tempi di Dante, la terra era ritenuta immobile, il cielo delle “stelle fisse” si muove più velocemente dei cieli che stanno al di sotto. Ma noi tralasciamo tutto ciò che si muove per rivolgerci al cielo che è sempre reso quieto dalla presenza di Dio, l'Empireo. “E ora lì, come ad un sito decretato da Dio, ci porta la forza di quella corda metaforica, l'inclinazione naturale, la quale ciò che scocca indirizza ad un bersaglio lieto” (e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto).

127-132 Vero è che, come forma non s'accorda
molte fiate a l'intenzion de l'arte,
perch' a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;

Occorre una precisazione rispetto a ciò che è stato detto: cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. Infatti così continua Beatrice: “Come è vero che un oggetto molte volte (molte fiate) non si accorda alle intenzioni dell'artigiano, perché la materia non risponde bene alle intenzioni dell'artigiano (perch' a risponder la materia è sorda) infatti ci sono dei materiali che non si lasciano lavorare tanto bene, così da un bersaglio lieto (da questo corso) si toglie via talora la creatura, la quale ha potere di piegare, spinta in tal modo, verso un'altra parte”

133-135 e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l'impeto primo
l'atterra torto da falso piacere.

E così come si può vedere cadere un fulmine (foco di nube), così l'istinto (l'impeto primo) porta a terra la creatura deviato da un falso piacere”.

136-142 Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giuso ad imo
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d'impedimento, giù ti fossi assiso,
com' a terra quiete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver' lo cielo il viso.

Così Beatrice conclude il suo discorso: “Non devi più stupirti, se bene stimo, del tuo salire in cielo, non di più di un fiume (un rivo) che da un alto monte scende giù verso il basso (ad imo). Dovresti meravigliarti se, senza nessun impedimento, ti fossi seduto a terra (giù ti fossi assiso), allo stesso modo di vedere a terra un fuoco vivo che è in quiete”. Beatrice scompagina le concezioni del mondo di Dante e la teoria dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) conosciuta da Dante, è sostituita da una spiegazione che si riconduce alle cause ultime di tutto, spirituali, al nostro fine ultimo che è Dio. Ed è per questo che Dante sale verso il cielo, perché è ormai privo di impedimento terreno, essendo stato purificato, ed è degno di salire verso il suo destino ultimo che è Dio. Anche per noi, la stessa Divina Commedia non si comprende se ci rifacciamo solo alle nostre conoscenze, le quali non corrispondono alle conoscenze che si avevano nel Medioevo. Dobbiamo pensare che la Divina Commedia tratta di cose spirituali e non materiali, per poterla comprendere appieno.

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